Identità, la vera vittima della globalizzazione: come recuperarla?
Girare per l’Italia (e non solo), da una decina d’anni a questa parte, significa trovare strade che si assomigliano sempre di più, con gli stessi negozi, quelli delle grandi catene, le stesse tipologie di locali, la stessa atmosfera. Sempre più depressa, sempre più omologata, sempre meno caratteristica.
È l’identità, la vera vittima della globalizzazione. Se fino agli anni ’80 il provincialismo e il campanilismo sembravano essere i mali di un Paese che, ad oltre 100 anni dalla sua unificazione, faticava ancora a trovare un’identità nazionale, oggi ci ritroviamo un’Italia che, come allora, continua a non avere un’anima condivisa, ma dall’esterno e in superficie sembra assolutamente identica, da Trieste a Trapani.
La globalizzazione ha fatto, in poco più di 20 anni, il lavoro che la cultura e i trasporti non erano riusciti a fare in più di 100, “arredando” le strade del Paese in stock, sulla falsa riga di quello che sta avvenendo in quasi tutto il “mondo occidentale”. Cosa che toglie identità non soltanto alle città, ma ad intere nazioni e territori.
Sia chiaro, questa riflessione non intende scagliarsi contro i grandi marchi multinazionali, che hanno fatto bene il proprio lavoro e si sono presi le loro belle roccaforti in quasi tutte le città del mondo. Il problema è tutto il resto, le piccole botteghe, il commercio locale, gli artigiani. Chi ha detto che questi ultimi non possano convivere accanto agli altri, esaltati dal loro ruolo di “custodi dell’identità” di un territorio?
La perdita d’identità ha riguardato tutti i settori e non ha risparmiato nessuno, tanto da portare una crisi profonda, persistente e probabilmente irreversibile. Una crisi di valori e una crisi d’identità, prima ancora che una crisi economica. Ma i media ogni giorno ci raccontano altro. E ci raccontano, tra l’altro, la favola di una ripresa che non ha alcuna possibilità, se non attraverso un radicale cambiamento del modello economico e sociale.
Cos’è questa crisi, dunque? Siamo davvero di fronte ad un mero problema di stagnazione o di recessione o c’è di più? Personalmente ritengo che le cause siano molto più ampie e che si debba appunto ricercare il colpevole nel sistema e nel modello, piuttosto che in parametri di tipo esclusivamente economico.
È il modello che non funziona. Il commercio locale, nella fattispecie, non è stato distrutto da una crisi economica, ma da una devastante crisi di identità. Nei negozi locali, soprattutto quelli dei centri cittadini, non comprano più i residenti e non comprano più i turisti. Essi hanno perso la loro attrattività, non sono più competitivi e non servono ad altro che a far sostare per qualche istante la gente davanti alle vetrine, più che altro per “farsi un’idea” di quello che poi compreranno altrove: in rete o nei centri commerciali, a un prezzo migliore.
Ecco perché i negozi chiudono: perché non hanno una loro identità e si limitano a tirar dentro i propri magazzini merce che va per la maggiore, incomprensibilmente incuranti del fatto che su quegli articoli non potranno competere con realtà più grandi e più strutturate. O, peggio, perché vanno a cercare prodotti con cui possano uscire a buon mercato, ma che non riscontrano il favore del pubblico, che oggi cerca soltanto marchi affermati o di tendenza.
Impossibile venirne a capo, dunque? No, uscire da questo vicolo cieco si può (e si deve), ma occorre tornare indietro guardando avanti. Con il rischio di andare a sbattere, ovviamente, ma con la consapevolezza che non esiste altra strada praticabile, se si vogliono tenere alzate le serrande.
Tornare indietro non significa rinnegare il presente, sia chiaro, ma andare a recuperare tutto quanto il buono che c’era in un passato non troppo remoto e reinterpretarlo in chiave moderna; attualizzandolo, reinventandolo. Significa puntare sulle eccellenze locali, non soltanto in termini di prodotti tradizionali, ovviamente.
Occorre dare spazio alla creatività delle nuove generazioni, ad esempio, e fare in modo che i commercianti locali possano incontrare i talenti del territorio e far loro da apripista, mettendo in vetrina qualcosa che in altre parti d’Italia o del mondo non c’è e non può esserci, perché tipico di un artigiano o di un creativo locale.
Occorre che chi vende abiti e accessori, per ragionare su uno dei settori più in crisi, smetta di riempire le vetrine con marchi commerciali sui quali non sarà mai competitivo, ma cerchi invece piccole aziende locali, che stanno morendo non per incapacità di produrre e di creare, ma perché il mercato non è in grado di assorbire i loro prodotti e di valorizzarli.
Il problema non è il prezzo. Chi lotta sul prezzo ha già abbassato la serranda. Il problema è il prodotto, l’idea, il servizio. Il problema è fare tendenza, entrare in un nuovo modo di fare commercio che non si limiti più alla filiera produttore – distributore – punto vendita. Oggi la rete ci offre nuove opportunità, ci consente di fare sistema e di trasformare i nostri negozi in qualcosa di profondamente diverso.
Rinnovare la propria attività e puntare (anche) sulla rete, non significa aprire una pagina su Facebook o ridisegnare il sito web. Significa cambiare modo di ragionare, smettendo di considerare il nostro esercizio commerciale una realtà a se stante. Da soli non si va più da nessuna parte ed è più che mai il momento di fare squadra con le altre realtà presenti sul territorio: esercenti, istituzioni, organizzazioni e associazioni, cittadini e loro aggregazioni, gruppi di acquisto, etc.
E poi ci sono gli utenti del web: blogger, utenti di piattaforme come Instagram, “smanettoni” di ogni genere che possono davvero aiutarci a crescere e a trovare spazio in una realtà sempre meno virtuale e sempre più concreta, in grado di supportare in modo fattivo le iniziative e le idee di un commercio nuovo, dinamico, responsabile e proattivo.
In sintesi, e senza nessuna presunzione, occorre ricostruire sui nostri territori un tessuto produttivo e commerciale, che faccia rivivere le città di una propria identità, moderna, attuale, al di fuori dai luoghi comuni e dai vecchi paradigmi.
Le città, soprattutto quelle più piccole, debbono trasformarsi in “laboratori creativi” e in centri di conservazione e di promozione delle eccellenze locali, tradizionali e moderne, se vogliono avere un’opportunità di sopravvivere e di proliferare.
La crisi non si sconfigge in nessun altro modo. La globalizzazione non è il male assoluto. Al contrario, essa potrebbe rappresentare una grande opportunità, se si fosse capaci di coglierla e di valorizzarne il senso e le dinamiche, anziché limitarsi a maledirla come la peggiore delle iatture.
La nostra percezione delle eccellenze locali si limita a un passato sempre più remoto, troppo spesso legato esclusivamente alla tradizione enogastronomica o schiettamente artigianale. Bologna, nel 2000 e spicci, non può più essere solamente la città dei tortellini, così come Firenze non deve rimanere ostaggio delle sue eccellenze negli ambiti dell’oreficeria o della pelletteria. In centinaia di anni non si è prodotta nessun’altra idea e non è nata nessuna nuova eccellenza?
La verità è che questo Paese continua a vivere di rendita e l’urgenza di conservare l’ha reso incapace di innovare in altri settori che non fossero quelli della produzione industriale, che ormai langue nella crisi. Lobby, centri di potere, associazioni di categoria e comitati di vario genere hanno fatto il resto, lasciando da sole tutte quelle piccole realtà che avrebbero voluto dire qualcosa, ma non ne hanno avuto la forza.
Occorre cambiare e bisogna farlo subito, partendo dalla rete. La rete del web e la rete delle relazioni, sempre più deboli, frustrate da una cronica incapacità di fare sistema e di essere sinergici. Recuperare l’identità perduta, portandola nell’epoca moderna, significa soprattutto questo: fare rete. È da qui che bisogna ripartire e non si può aspettare un giorno in più, per farlo.